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John McEnroe – L’impero della perfezione

Un Biopic, un saggio sul cinema e il tempo, sul tennis e le tecniche del corpo, un making of, un documentario sportivo, un Character Study, John McEnroe. L’Impero della Perfezione è un film impuro e rizomatico, un’esplorazione delle possibilità del cinema documentario come forma molteplice, ibrida e sempre parziale. L’inquietudine formale è il corpo nervoso ed estatico di John McEnroe nel suo terribile Roland Garros del 1984 che Julien Faraut fa sopravvivere attraverso gli archivi di Gil de Karmadec, maestro di cinema e di tennis.

 

‘Il cinema mente, lo sport no’ così si apre il curioso e impuro film di Julien Faraut, di Gil de Kermadec, di John McEnroe, un film con tanti maître e infestato da tanti spettri. Anzitutto quello di Godard, sua l’epigrafe al saggio-film, poi quello di Serge Daney – meno conosciuto del primo ma più prolisso nel dilungarsi nei rapporti fra cinema e sport, tennis in particolare. ‘Il cinema è tempo’: ‘il tennis è tempo’ dice Daney. Faraut riparte da qui, dalle riflessioni di Daney per i Cahiers du Cinema e Libération su cui costruisce per sovrapposizioni e accumuli, incrostazioni e sedimenti di terra rossa.

Ma procediamo per strati. Il primo e fondamentale è in bianco e nero, scene tratte da un film didascalico di de Kermadec che è più una comedie, l’appendice ancora più buffa di un film di Tati in cui un tennista-marionetta si muove su orme di assassini e ruota su se stesso cigolando, per poi scoccare il colpo come una molla. De Kermadec, col visone raggrinzito dalle rughe, se la ride di gusto. È lui il primo maestro di questo film, che Faraut col montatore Andrei Bogdanov e con Nicolas Thibault (che su de Kermadec ha realizzato nel 2013 un documentario più esteso) omaggia immediatamente. De Kermadec è il maestro di un cinema liminare e dalla  storia spesso infelice: il cinema sportivo. Tra il 1960 e il 1970 realizza per il Roland Garros e la Federazione Francese una serie di portraits (ci informa un Mathieu Almeric dal proverbiale inglese francesizzato), studi di tecniche del corpo in cui il gesto tennistico viene vivisezionato, coreografato e rielaborato informaticamente. Fra i ritratti di de Kermadec ecco irrompere nei giochi un nuovo maestro, accompagnato un po’ tamarramente dalle chitarre di Lee Ranaldo e Thurston Moore, con servizi in slice al ralenti, la schiena arcuata e lo sguardo estatico che guarda fisso al suo Dio nella palla gialla: John McEnroe. Fra gli archivi di De Kermadec sopravvivono le immagini del Roland Garros del 1984, il film è tutto qui: nei primi piani, nei mezzi busti, nei dettagli impressi in bobine e bobine di pellicola in cui McEnroe si dibatte, lotta, viene a rete, lancia racchette, litiga con giudici di sedia e microfonisti. Con un salto autobiografico Almeric dà voce al diario di lavorazione di Faraut: ‘ho lavorato per mesi a ricomporre centinaia di piccole bobine, avevo la sensazione che questi frammenti contenessero qualcosa di prezioso, qualche segreto’.

Surrettiziamente emerge dalla testimonianza autobiografica una delle tante incrostazioni del film. Il racconto di McEnroe al RG 1984 è anche la vertoviana vicenda di un cameraman e dei cine-occhi di De Kermadec, i suoi 4 operatori e la loro camera da presa che rimbalza ad ogni punto fra il microfonista, il ciak e i toc della racchetta di McEnroe. L’Empire de la Perfection è un film di fantasmi e sopravvivenze, di cambi di direzione e di movimenti di terreno. Nel vortice narrativo e visivo appaiono in trasparenza i fantasmi delle origini del cinema, di Marey e la cronofotografia (quasi fatale la coincidenza per cui la stazione fisiologica in cui lavorava è sotterrata proprio sotto i campi del Parco dei Principi). L’esplorazione del tempo e del gesto iniziata dal fucile fotografico di Marey infesta il lavoro di de Karmadec e quindi di Faraut, nei ralenti di McEnroe in cui sopravvivono e si sovrappongono le cronofotografie della fine dell’Ottocento.

 

 

Il documentario, non prima di aver nuovamente cambiato direzione (un break televisivo questa volta: “shortly your programme will continue”), apre nuovamente la sua forma per accogliere una riflessione sul cinema e il tempo, il tennis e il tempo. ‘Il tennis si basa su un countdown, la durata della partita dipende dalla capacità dei giocatori di creare il tempo che gli serve per vincere’ dice Serge Daney – che dopo la collaborazione con i Cahiers du Cinema scrive per più di 10 anni di tennis per Libération – così come il cinema il tennis dipende dalla durata, è raccontare un countdown, è un’invenzione di tempo. Ed ecco dunque il maître eponimo, John McEnroe, il regista che con una discesa a rete decide il cut della scena, che iscrive il tempo con un servizio a uscire.

L’inquietudine formale che ha contraddistinto il documentario fino a questo punto trova corpo in McEnroe, incarnata nei tic nervosi e nelle crisi isteriche che lo attraversano. I movimenti di terreno, i continui spostamenti di forma filmica diventano allora i cambi di direzione, le scivolate e i rovesci in corsa.  A questo punto i tentativi di cambio di registro risultano superflui e faticosi: il tentativo di meta-riflessione sul documentario e la parentesi psicologizzante non riescono a farsi spazio a discapito di un corpo che sovrabbonda di per sé, che non permette alcuna “bugia” filmica.

Si arriva così un po’ stanchi al drammatico epilogo. McEnroe è arrivato in finale, ad aspettarlo per una pistolettata in pieno stile western c’è Ivan Lendl, sfidato già 4 volte durante l’anno e sconfitto altrettante volte. Sul deserto rosso infuocato del Centrale McEnroe domina tempo e avversario per due set, Lendl gioca per contraccolpo, oppone la racchetta a una palla che corre sempre più lontano. McEnroe vola sul campo e tesse le sue trame indisturbato. Poi si rompe qualcosa, McEnroe si perde nel tempo che ha creato, si lancia a rete alla disperata ma a ogni punto viene infilzato da Lendl. Su un passante stretto del ceco McEnroe scivola e grugnendo crolla a terra. I punti ripetono inesorabilmente le palle che McEnroe non riesce a raggiungere, il ralenti sbeffeggia le volée scomposte e le palle mandate in rete. Al maître è sfuggito il tempo. Tenta di rimanere aggrappato prendendosela con gli spettatori, i fotografi, i giudici di linea. Il tempo ora scorre veloce e inesorabile, il countdown conta i minuti che lo separano dalla sconfitta.

6-5 Lendl quinto set. Match point per il Ceco sul servizio di McEnroe. L’americano serve una prima ad uscire, Lendl si lancia e risponde con un back alto e centrale, McEnroe si avventa con foga su una palla che chiede solo di essere spinta dall’altro lato della rete ma va troppo veloce e apre troppo la racchetta. Out. Game, Set, Match Lendl.

Si chiude senza perfezione l’Impero di McEnroe. Il cinema può mentire, lo sport no. Faraut con John McEnroe – L’Impero della Perfezione mente a partire dal titolo, che sembra promettere un Biopic e che invece mette in scena un complesso intersecarsi di genere, un film attraversato da sopravvivenze e fantasmi, che sfrutta le possibilità del documentario come forma molteplice, impura e sempre aperta a spostamenti e rivoluzioni.