Top

Lo Spaccone

Dylan la musica, la scrittura ed il tempo

Bob Dylan ha lottato tutta la vita contro chi voleva collocarlo. Concettualmente e temporalmente. 

 

“That’s all a clumsy bullshit”. Sono le parole di Dylan con cui si apre il documentario Rolling Thunder Revue di Martin Scorsese. Il regista racconta dello storico tour errante con 52 date che Bob Dylan, in compagnia di altri artisti, intraprese negli anni 70’.

Dopo aver tentato alcuni minuti di catarsi mnemonica, di sforzo per ricostruire le motivazioni e lo spirito che alimentò quel periodo e quella serie di concerti, decide di regalarci questa esclamazione. Proseguendo poi con: “I’m tryin’ to get to the core of what Rolling Thunder thing is all about. And i don’t have a clue. Because it’s about nothing. It’s something that happened 40 years ago”.

C’è lo spirito, c’è la moltitudine di Dylan, in queste semplici parole. Sufficienti a spiegare molto di uno degli artisti più importanti del 900’, e probabilmente più influenti della storia della musica, oltre che della poetica e della cultura popolare in genere. Viene fuori la sua concezione del tempo, che è strettamente correlata alla sua idea sulla vita e sulla musica – che nel suo caso peraltro coincidono.

Il documentario di Scorsese raccoglie alcuni preziosi passaggi di un evento estremamente importante, sia per il Dylan musicista che per il Dylan performer; riprendendo con vigore l’attività live interrotta bruscamente anni prima. Quel Rolling Thunder Revue che dipinse perfettamente l’America di strada. Un paese che sembrava aver raccolto, masticato e sputato il sogno americano. Finendo per generare un disagio sociale ed un’alienazione diffusa, fonte però ricca di ispirazione e di creatività per numerosi artisti, che trovarono il modo per farne cultura popolare ed estetica multiforme. 

È un’America Kerouchiana e Ginsberghiana, ma soprattutto Scorsesiana e Dylaniana. Due autori che ne hanno descritto la forma e ne hanno raccontato la bellezza non canonica, in modo inimitabile. Un’America frustrata dalla realtà della guerra in Vietnam, dai contrasti sociali e dalle difficoltà economiche – in un passaggio del film Scorsese ci mostra il New England, una zona notoriamente benestante, in piena crisi economico-sociale, dove il pianto crescente di una giovane che partecipa al concerto, sembra avere l’ombra della disperazione e al tempo stesso della gioia che sia rimasto qualcosa di bello, nonostante tutto. Tutti questi elementi che, però, sembrano essere allo stesso tempo estranei ed alieni al tour, ma presentissimi nei testi di Dylan e dei suoi compagni di vagabondaggio.

 

https://www.youtube.com/watch?v=iUD5snx-XOo

Hard Rain è uno dei pezzi più electro-blues dell’intero tour, cantato con voce graffiante. Un brano scritto durante la crisi dei missili a Cuba. La metafora, pare, sia quella della pioggia radioattiva causata da un impatto nucleare. Anche se Dylan stesso ha spesso sottolineato la scelta di ricondurre il pezzo ad una metafora più ampia, che riguardasse la complessità di quel periodo e le tensioni in modo meno vincolato al solo tema bellico e politico, ricomprendendo anche altre questioni sociali.

 

Dopo No Direction Home, il regista newyorkese decide ancora di interrogare un paese, il suo spirito – in un determinato momento, che sembra però avere ancora forti legami con l’attualità. E lo fa attraverso il personaggio più storiografico, una voce-testimone potente e genuina. Quella che ha raccolto nei decenni la poetica folk dei treni merce di Steinback, l’urlo rivoluzionario della Beat Generation – “ho visto le migliori menti…”. Un uomo che, come perfettamente riassumono le sue parole iniziali, ha deciso di collocarsi nel presente, di manipolare il passato per fini poetici, privi di retorica nostalgica. “Sono tutte stronzate senza senso (…) Sto provando a tirare fuori il senso di cosa sia stato Rolling Thunder. Ma non ci riesco. Perché non è nulla. È qualcosa che è successo 40 anni fa”.

Dylan ha concepito il tempo come metamorfosi continua, oltre che come conflitto personale. Tra l’ambizione di ciò che sarebbe voluto essere, Woody Guthrie, Billy The Kid, Arthur Rimbaud, e ciò che ha finito per essere. Voce del presente in movimento, slegato da alcuna storicità. Il motivo per cui a quasi ottant’anni i suoi tour sono ancora infiniti – basta guardare il documentario sino alla fine. Un ramingo, un vagabondo che quando ha dovuto giustificare il suo ritardo nel ritiro del Premio Nobel, se n’è uscito con “Precedenti impegni”, ovvero le date del tour già stabilite. In una forma di ossequio inesausto che Dylan ha sempre avuto solo per un’entità, il suo pubblico. Pur passando per traumi, divergenze. Con lo strappo da molti non perdonato nella sua svolta “elettrica” degli anni 60’, ad esempio. Forse il primo grande momento di rottura, in cui Bob Dylan ha dimostrato di non voler subire il tempo in alcun modo, di voler continuare a camminare imperterrito, non rimanendo un “semplice” musicista folk fuori dal tempo, un cantastorie della tradizione omerica. Diventando, al contrario, la voce più potente della storia della musica novecentesca.

Nessuna voglia di creare clamore, quindi, quella dell’affaire per il premio Nobel. Dylan è sempre stato un rivoluzionario perché ha rifiutato di vivere nel passato e secondo dogmi prestabiliti, anche quando si trattava di percorrere la strada più tortuosa, quella raccontata da Thoreau, I went to the woods because I wanted to live deliberately”. La strada che gli scorre nelle vene è la Highway 61, è il vento che si porta via le risposte. È una pietra rotolante.

La sua vena conflittuale nasce dalle colpe degli altri, dal loro non comprenderne il personaggio o il suo verbo.  Nel suo ringraziamento all’Accademia, Dylan chiarisce perfettamente ciò che pensa di quel premio, ed in generale della scelta frequente di avvicinare la musica alla letteratura.

“Le nostre canzoni sono vive nella terra dei vivi. Ma le canzoni non sono letteratura. Devono essere cantate non lette. Le parole delle commedie di Shakespeare devono essere recitate sul palco. Proprio come le parole delle canzoni devono essere cantate, non lette sulla pagina”.

Ancora una volta, quindi, non è contrapposizione o dialettica, ma è difesa di un principio. Non compreso per presunzione o per semplice estraneità a chi, comunque, riconosce la grandezza di un personaggio e del suo percorso. Un percorso che, però, Dylan ritiene di dover difendere nella sua forma originale e genuina.

Ed il rapporto con la poesia, e con la letteratura in genere, è un tema cruciale dell’intero film.

La musica è una protagonista assoluta – decisamente più di No direction home, che nel prendere forma assumeva progressivamente i contorni della performance di attore solista -, è presente ovunque, in qualsiasi forma. I compagni di viaggio di Dylan lo accompagnano in session ricorrenti ed infinite, in posti impensabili. Ad ogni tappa si aggiunge un nuovo musicista, da Joan Baez e Joni Mitchel, iniziando con T-Bone Burnett, Steven Soles e David Mansfield. Jack Elliot, che è con lui sin dall’inizio, per Dylan è migliore come marinaio che come musicista – uno dei tanti passaggi comici e surreali del film, che ha il merito di essere molto divertente. La musica è presente non solo come ente astratto durante il tour, ma si concretizzerà nel tempo sotto-forma di numerosi dischi live, di libri postumi. Oltre che nel fallimentare progetto-film di Shepard, iniziato con ambizioni fuori fase rispetto alle prospettive anarchiche di un tour iniziato sull’onda dello spirito circense, dove ogni elemento sembra andare per la propria strada, con il solo obiettivo comune di fare un grandissimo spettacolo; un vero e proprio ensemble di musicisti, prima ancora che di liberi pensatori. Nessuna pretesa ideologica o filosofica, quindi. Non direttamente quantomeno. Ma la musica nella sua versione più autentica, quella della performance live – ed è qui che ritorna il tema del tempo. Straniante, su questo tema, è il momento in cui Ginsberg viene ricollocato con una performance breve, di soli 2 minuti; addirittura si parla di lui come facchino. Si comprende il ruolo che il pensiero mediato, quello non rotto e ricomposto dalla musica live, fosse del tutto inappropriato al contesto. Un dualismo, questo con la poesia ed il pensiero poetico, che solo riascoltando il discorso per il Nobel non sembra così schizofrenico ed incoerente. Nel corso delle date gli interventi del poeta e di altri autori vennero progressivamente tagliati. Troppo asincrono rispetto a quello che si stava facendo, troppa dilatazione temporale.

E quindi è ovvio per Dylan, ma a quel punto anche per lo spettatore: Ginsberg vuole diventare un musicista. O ancora meglio un ballerino ed un musicista: “Allen voleva essere quello. Ma era un poeta, non un musicista”.

Non c’è alcuna forma di superiorità, ne di disprezzo. C’è la chiarissima scelta di distinguere i piani, di evitare confusioni concettuali. Ogni cosa deve avere il proprio spazio, e Dylan era estremamente pragmatico in questo, sapeva il rischio che avrebbe corso una deviazione della sua arte, il pericolo di confusione che due performance eterogenee inserite nello stesso contesto potrebbero causare allo spettatore. 

Ed è lo stesso pragmatismo che lo spinge in una seconda fase del tour a massimizzare l’attenzione sviluppata, per parlare di Rubin “Hurricane” Carter, il pugile nero a cui Dylan dedicò una canzone-manifesto contro il sistema giudiziario americano e contro la condizione degli afroamericani. I suoi incontri con Carter rivelano questa sintonia profonda tra i due. Per Bob Dylan non si trattava solo di una battaglia di civiltà, era un modo per rendere giustizia all’uomo pubblico, alla figura popolare; “both of us were… were performerers and crowd-pleasers”, dice Carter intervistato. Una parola interessantissima: “crowd pleasers”, praticamente intraducibile.

L’attenzione verso Rubin Carter fu elevatissima, ed oltre la questione razziale – che Dylan negli anni ha mostrato di voler portare avanti ben al di la della comunità afroamericana – aveva in se il tema della celebrità, della sovraesposizione, all’epoca per nulla presa in considerazione. Che per Bob Dylan voleva dire rivendicazione di libertà, ad ogni livello.

 

https://www.youtube.com/watch?v=ujgqOgMIwfA

One More Cup of Coffee è in pieno stile Rolling Thunder Revue. Un brano seducente e mistico, con il violino a riempire perennemente gli intermezzi musicali, la voce di Dylan che allunga le vocali finali di ogni parola, come se fosse un rito magico. La nascita della canzone, come spesso nel caso di Bob Dylan, è incerta. Pare che per il suo  trentaquattresimo compleanno, nel 1975, Dylan fece visita al pittore David Oppenheim nel sud della Francia. I due partecipano alla processione di Les Saintes Maries de la Mer, un ritrovo tradizionale nel quale Santa Sara, protettrice di numerose etnie di zingari, viene accompagnata verso il mare. A quanto pare in quell’occasione egli conobbe un uomo con numerose mogli e centinaia di figli, restando con lui per diversi giorni.  E al momento della sua partenza domandò un’ultima tazza di caffé.

 

Ma cosa alimentò davvero quel tour? La domanda iniziale a cui Dylan non riesce e non vuole rispondere. Qualcosa di nato con un tratto estetico così forte, una carovana burlesque, il circo, un mago pronto a dare spettacolo, come quello nel filmato in bianco e nero all’inizio del film.  “Bob Dylan è un genio?”, chiede Shepard alla domanda dell’intervistatore. “Non lo so, è una parola strana. Forse. Una delle cose più geniali che ha fatto è stata mettere su un treno persone motivate ed ambiziose senza supervisione, lasciando che diventassero la versione più estrema di se stessa”.  Rolling Thunder è nato anche per caso, a sentire le testimonianze. Dalla voglia di Dylan di tornare a suonare, dopo periodi di assenza. Dopo aver visto un concerto degli Stones.  Un nome, quello del tour, che pare avere origini del tutto incerte. Chi racconta che fosse nato da una serie di tuoni sentiti da Bob durante una notte; chi ancora che il titolo originale dovesse essere Montezuma. Finendo poi per scoprire che il nome combaciava con una delle operazioni militari degli americani in Cambogia. Fu anche uno show così lungo da attraversare dei micro-momenti storici per l’America, sintetizzando questo anti-dogma secondo cui un tour può essere per mutevole. Praticamente ogni tappa finì per arricchirsi non solo di musicisti, ma anche di nuove tematiche e di conseguenza di un novizio vigore.

Ma tralasciando la genesi, è stato senz’altro uno dei momenti più creativi del Dylan performer. Uno stimolo a fare qualcosa di nuovo e di bello che si nota chiaramente nell’energia mostrata sul palco, nelle parole urlate con voce graffiante. In quegli occhi spiritati azzurri che nessuno nota mai perché la sua espressione è sempre folta. Un volto coperto dal trucco bianco e da grossi cappelli con fiori. È stato un momento che ha anche contrassegnato l’estetica dylaniana, aggiungendo un ulteriore momento alla sua incessante evoluzione. Il misticismo, l’ambiente gitano che si fondeva con le giacche in pelle anni 70’, sono la traduzione formale di un esperimento per “far guarire l’America”, come dice Ginzberg verso la fine del film.

Un tour che non fu un successo “non se lo giudichi da un punto di vista dei profitti. Ma fu un’avventura”, dice Dylan. “Per certi versi si, fu un grande successo”.  E  tutte le avventure hanno un presupposto temporale. Il tempo, protagonista assoluto della filosofia Dylaniana. Il tempo che sta cambiando. “Cosa rimane di quel tour? Niente”, chiude Dylan. “Polvere”.

E la polvere se la porta via il vento, come le risposte. Ma è anche il vento che quelle risposte e quella polvere, prima o poi ce le riporta indietro. 

 

Co-fondatore de Lo Spaccone, scrive di cinema ed altre cose. Vive a Milano, nato a Napoli, con un po' di cuore a Liverpool.