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Elio Germano è il miglior attore del mondo?

 

Non tanto il trasformismo (comunque degno delle migliori interpretazioni, dei più grandi), quanto la sua capacità di rendere intenso ogni attimo, di rendere suo ogni tic facciale, ogni espressione del volto o movenza. Elio Germano è un attore, un attivista, un uomo di cultura. Un politico. 

 

L’antidivo italiano ha trionfato all’ultimo Festival di Berlino conquistando l’Orso d’argento come migliore attore per la sua interpretazione di Ligabue nel film di Diritti. Tra impegno politico e ruoli da freak, l’emergente di professione, come si autodefinisce, si è conquistato un posto di rilievo nell’attuale panorama cinematografico.

Il primo comandamento in letteratura è “scrivi ciò che sai”. Elio Germano, romano, classe 1980, sembra aver applicato questo dictat alla recitazione: “interpreta ciò che sai”.

E cosa sa Germano? Noi, di lui, non molto, è terrorizzato dall’eventualità che la gente parli dei “cazzi suoi”. D’altronde la sua filosofia è che gli attori non dovrebbero mail parlare della loro vita. È il personaggio quello a cui bisogna dare visibilità, non l’attore che lo impersona.

Figlio unico di due genitori, che definisce “missionari”, della media borghesia, papà architetto e mamma impiegata di banca, è  per sua stessa scelta, un ragazzo di periferia, anzi come si dice a Roma, di borgata. Luoghi di confine, all’ultimo capolinea dell’ultimo tram, luoghi di forte aggregazione, luoghi di eccessi. Pasolini, in merito alla varia umanità che vi abitava, scrisse: “La pura vitalità che è alla base di queste anime, vuol dire mescolanza di male allo stato puro e di bene allo stato puro: violenza e bontà, malvagità e innocenza, malgrado tutto”.

E nella borgata Germano vive tutt’ora, a Corviale, il celebre Serpentone diventato, nell’immaginario collettivo, il quartiere-simbolo del degrado delle periferie della capitale, e ci vive bene, dice. A Corviale ci sono gli immigrati, gli abusivi, lo spaccio, ma c’è anche la gente che mette in atto davvero la solidarietà sociale, un luogo vivo, dove “non c’è bisogno di guardare la televisione”, quello che serve sapere lo si sa dalla strada, dalle piazze, dai bar.

 

 

Sono posti dove vivono gli ultimi, raccontati impietosamente, ma senza alcun tipo di giudizio morale, anche da Scola nel suo Brutti, sporchi e cattivi (1976) film che Germano ha detto di considerare un “atto d’amore verso le persone spregevoli”, rese tali proprio da una urbanizzazione feroce e da un imbarbarimento urbanistico.

Ed è questo tipo di poetica degli ultimi che Germano porta sul grande schermo, questa apologia dei poveri cristi che si arrabattano, spesso invano, per raggiungere una vita migliore. E la povertà non è sempre e solo materiale, molto spesso è anche una povertà di sentimenti, di empatia.

C’è sempre una grande tensione nei personaggi di Germano, una tensione che è in primis spirituale: una spinta interiore ad essere migliori di quello che si è, a raggiungere un fine più alto; e poi corporea, fatta di gesti che da misurati si fanno via via più scomposti ed ad un certo punto cedono ad uno scoppio di violenza incontrollata, liberatoria, in una fame di autoaffermazione, di vita. Bene allo stato puro e male allo stato puro.

Viene dal teatro Germano, ha iniziato giovanissimo a frequentare il Teatro de Cocci a Testaccio. Del teatro dice che è uomo, conta quello che si dice (mentre il cinema, no, il cinema è donna, conta ciò che si mostra). La spinta ad approcciarsi a questo mondo viene, ancora una volta, dalla periferia, dall’impossibilità di comunicare le proprie idee in una lingua che fosse diversa da quella imparata sulla strada. “Vivevo in silenzio” dice, la barriera tra chi sta sotto e chi sta sopra è sempre anche linguistica, la lingua come arma di sottomissione delle masse.

Il teatro in questo è stato liberatorio. Eppure si avverte che Germano continua a non essere del tutto a proprio agio con le parole, con l’italiano. Lo usa, lo usa bene, ma spesso lo usa come un accessorio alla propria fisicità. Comunica di più con le espressioni del volto mobilissimo, con uno sguardo di quegli occhi da cane bastonato che continuano ad essere la sua principale caratteristica, con una camminata, con uno scatto del corpo, con le braccia e le gambe che sono i veri strumenti del suo mestiere.

Puoi togliere il ragazzo dalla periferia, ma non la periferia dal ragazzo, per parafrasare Ibrahimovic.

È un attore per caso Germano, un emergente di professione. Periodicamente viene riscoperto da critica e pubblico, premiato, glorificato. E a lui va bene così.

Di nuovo quest’anno a Berlino, dove ha ricevuto l’Orso d’argento per il miglior attore per l’interpretazione del pittore Antonio Ligabue nel film di Giorgio Diritti Volevo nascondermi (2020).

Già in precedenza, nel 2014, Germano si era cimentato nella rappresentazione di un altro personaggio storico che tanto profondamente ha segnato la storia e la cultura italiana: il poeta Giacomo Leopardi, il “giovane favoloso” del pluripremiato film di Garrone. E in realtà sono due i giovani favolosi sullo schermo, l’uno dentro l’altro, come in un gioco di scatole cinesi: Germano presta a Leopardi il suo sguardo indagatore e inquieto e, allo stesso tempo, assume su di sé lo spirito, indomito e ribelle, del poeta, quasi fosse una sostanza materica che plasma la sua recitazione.

 

 

E quanto si assomigliano questi due caratteri? L’attore viene chiamato a cimentarsi nuovamente con un personaggio complesso e stratificato come Ligabue, pittore geniale, ma devastato nella mente e nel corpo, che riesce ad esprime sé stesso solo attraverso la sua arte autentica e belluina. Germano ha dichiarato di aver trovato fondamentale il trucco prostetico per riuscire ad immedesimarsi completamente in Ligabue. Gli ha permesso di “economizzare” lo sforzo fisico che avrebbe richiesto simulare attraverso le espressioni facciali e corporee la deformità fisica del pittore.

Uno sbagliato, un diverso (torna anche qui la poetica degli ultimi): Germano ha fatto leva sul suo personale senso di vergogna per arrivare ad identificarsi con il personaggio. La vergogna, il bisogno di nascondersi, la ricerca di un altrove dove trovare una propria dimensione come essere umano, è la cifra stilistica della pellicola di Diritti e il senso della ricerca artistica compiuta da Germano. Che in fondo ammira la tenacia di Ligabue, che è anche la sua, l’ostinazione con la quale si è rifugiato in un “paese dei balocchi” a sua immagine e somiglianza. “La preparazione, come spesso succede, è stata la cosa più bella” ha detto l’attore parlando del viaggio, lungo, che ha compiuto per prepararsi alla parte.

In questo caso il pensiero non può non correre ad un altro attore italiano, al quale peraltro lo stesso Germano ha detto di essersi ispirato, che con la sua interpretazione del tormentato pittore nell’omonimo sceneggiato di Nocita (1977) ha posto una pietra miliare nella storia della televisione italiana: Flavio Bucci. Ruolo freak per uno degli attori più freak allora in circolazione, iniziato al mondo del cinema da Elio Petri che lo chiamò a recitare nel ruolo di un collega di Gian Maria Volontè ne La classe operaia va in paradiso (1971).

E proprio a Volontè, attore simbolo del cinema di impegno civile (di cui Rosi diceva che “rubava l’anima ai suoi personaggi”, guarda caso), può essere paragonato Germano, da sempre impegnato sul fronte no tav, che a Venezia 2014 si è presentato con il pugno alzato e una t-shirt che proclamava Artisti 7607, la cooperativa fondata con altri colleghi, tra cui Santamaria e Marcorè, per la tutela dei diritti degli attori.

“Agisce politicamente” afferma “chi sceglie di fare la cosa più aderente al proprio modo di essere”, ed ecco quindi che la politica entra in modo pervasivo in tutti gli aspetti della vita di una persona. Germano ci dice che sono le nostre scelte quotidiane a definirci anche politicamente e che è difficile, nella società odierna, essere presenti a sé stessi. C’è una generale omologazione, una perdita di coscienza degli individui che, secondo l’attore, hanno smesso di pensare con la propria testa. Manca l’approfondimento critico, si ragiona per slogan, per luoghi comuni.

Ecco che il senso di mettersi a disposizione come artista, come interprete si concretizza ad esempio con Diaz di Vicari (2012) nel quale interpreta il giornalista Luca Gualtieri che si rifà a Lorenzo Guadagnucci, giornalista de Il Resto del Carlino picchiato dalla polizia e trattenuto in stato d’arresto per due giorni all’ospedale Galliera durante i fatti di Genova. Germano ha partecipato al progetto soprattutto perché ci credeva. In una intervista del 2012 a Max afferma “(…) Diaz è un film diverso dagli altri: non c’è stato mai un confronto con la performance, nessuno cercava di dimostrare di essere bravo o di fare più del dovuto. Tutti eravamo al servizio della storia, ci siamo sentiti parte di una collettività”.

Connotazione politica anche per il film della svolta di Germano, nel 2007, Mio fratello è figlio unico di Daniele Lucchetti, che lo dirigerà anche nel superlativo La nostra vita (2010) e in Io sono tempesta (2018), sicuramente il meno riuscito dei tre.

Se ci fosse un termine cinematografico per definire il bildungsroman sarebbe il più adatto a descriverne la trama. Germano interpreta Accio, il più giovane di tre fratelli che crescono nell’Italia degli anni ’60 / ‘70, gli anni della lotta armata, gli Anni di piombo. La crescita psicologica, morale e politica di Accio è determinata dal costante confronto-opposizione con il fratello maggiore Manrico, interpretato da un bravo Scamarcio, al quale comunque Germano tiene testa per tutto il corso del film.

Tratto dal romanzo Il fasciocomunista di Pennacchi la pellicola di Lucchetti mette in scena un dramma profondamente umano, nel quale spicca la recitazione duttile e sensibile di Germano (che come sempre sembra parlare più con gli occhi che con la bocca), assolutamente credibile nel ruolo di un ragazzo alla costanze ricerca della fede, che sia spirituale o politica. Il bisogno di credere è quello che accomuna attore e personaggio.

La consacrazione arriva nel 2010 quando vince a Cannes, ex aequo con Javier Bardem, il premio per la miglior interpretazione maschile per La nostra vita. Tornano le borgate romane, dimenticate ma vive e vitali, ben note a Germano, che interpreta Claudio, operaio edile, la cui quotidianità familiare, umile ma ricca di affetto, viene sconvolta da una tragedia, repentina ed imprevedibile: la morte di parto della giovane moglie. La recitazione di Germano è improntata come sempre al massimo realismo psicologico, tenuta sempre abilmente sul filo dal diventare eccessiva e, quindi, caricaturale. Elio trova Claudio dentro di sé, nei ricordi dell’adolescenza, nelle persone che incontra quotidianamente nel suo quartiere, e lo fa emergere, nei giochi con i figli, nei pranzi in famiglia, nelle urla di rabbioso dolore, come quando canta (quasi fosse un coro da stadio) Anima fragile di Vasco, la loro canzone, durante il funerale della moglie.

Sembra che a Elio piacciano i puri di cuore che, per gli accidenti della vita, finiscono per sporcarsi le mani, metaforicamente e materialmente. Sono persone che si sforzano di essere buone, di fare la cosa giusta, ma, vuoi per ignoranza, vuoi per scarsi mezzi, fanno le scelte sbagliate.

Non c’è mai giudizio da parte dell’attore, piuttosto una profonda empatia, una sorta di tenerezza nei confronti di queste anime perse. Quasi un desiderio di catarsi, come se interpretandoli, dando loro un corpo ed una voce, esorcizzasse i suoi demoni.

Claudio, nel rifiuto del dolore, decide di risarcire i suoi figli della perdita della madre riempiendoli di tutti quegli oggetti che non si erano mai potuti permettere (la “roba” di verghiana memoria). La ricerca della ricchezza materiale, sinonimo, ingenuamente, di una vita migliore, è quello che induce anche Fausto in Alaska (2015) e Giorgio ne Il passato è una terra straniera (2008), per citare alcuni esempi, a tradire i propri valori.

 

 

Ama il diverso Germano, il freak (ricordate Ligabue?), il lato buio e nascosto che è in tutti noi e di cui tutti ci vergogniamo, e lo porta alla luce. Come con il “magnifico” Pietro che convive con dei misteriosi inquilini (forse i suoi fantasmi) nella poetica pellicola di Ozpetek (2012) o il Quattro Formaggi di Come Dio comanda (2008), il freak per eccellenza, il matto, che, senza consapevolezza, uccide.

Quindi, cosa sa Germano? Sa scavare, nel presente, nel passato, in sé stesso. Ai suoi esordi nel cinema i colleghi lo prendevano in giro chiamandolo Dustin Hoffman (un titolo di merito in realtà). Celebre la battuta che Sir Lawrence Olivier, sul set de Il Maratoneta, fece ad un giovane Dustin Hoffman che si logorava nel tentativo di entrare completamente nel personaggio “Dustin, invece di correre, perché non provi a recitare?”.

Sempre in Germano troviamo una “mescolanza di bene allo stato puro e male allo stato puro”: come il De Niro di Taxi Driver, o lo Sean Penn di Mystic River.

Dovremmo chiederglielo, una di queste volte: Ehi Elio, perché non provi a recitare?

 

Essere veneta di nascita e milanese di adozione già la qualifica, in generale. Laureata in Economia e gestione dei beni culturali, dopo un breve ma glorioso passaggio in una radio nazionale, si trova catapultata nel magico modo della Comunicazione. Lettrice onnivora qualche volta scrive, se capita anche di cinema.