
Johnny Depp ci spezza il cuore
Dire che il suo talento non ci abbia mai convinto è una bugia. Depp è stato un ottimo attore, con un talento evidente ed un magnetismo difficile da trovare in giro. Poi, come il più banale dei cliché, ha deciso di farsi dimenticare.
Dicono che sia tornato. Alla Berlinale 2020 Johnny Depp si è presentato nei panni di un cowboy, armato di fedora, giubbino di pelle, bandana. Un Rango fuori tempo massimo, il camaleonte dell’omonimo film di animazione di Verbinski (2011) a cui Depp ha prestato la voce e, idealmente, l’attitudine un po’ svitata.
Durante la presentazione del suo nuovo film, “Minamata” dove interpreta W. Eugene Smith, fotoreporter di guerra per la celebre rivista Life, che denunciò l’avvelenamento da mercurio a danno dell’omonimo villaggio giapponese, ha citato “the power of the small”, ponendo sé stesso, e tutti noi, tra i “piccoli”. Qualunque problema, che riguardi l’ambiente, la sanità, la società, la politica, può essere affrontato e risolto grazie alla collaborazione tra i singoli individui.
Ed è strano sentire Depp definirsi piccolo, addirittura “speck of dust”, pensando che nel corso della sua carriera, oramai trentennale (fa specie scriverlo), ha interpretato alcuni dei ruoli più iconici nella storia del cinema. Anzi, è lui stesso un’icona del cinema. O meglio, lo è stato. La domanda è se tornerà ad esserlo.
Iconico è sicuramente Jack Sparrow (Pirates of the Caribbean, 2003), ruolo che è valso a Depp la sua prima nomination agli Oscar (come miglior attore protagonista). Sparrow è la personificazione dello spirito che caratterizza la stragrande maggioranza dei ruoli che Depp ha scelto di interpretare: il pirata. Outsider romantico per eccellenza, da secoli popola ed affascina l’immaginario collettivo (compreso quello dell’attore). Ed è interessante analizzare come Cicerone abbia definito il pirata communis hostis omnium, ovvero “il nemico di tutti”. Si tratta quindi di una figura davvero emblematica, un avversario universale talmente unico ed eccezionale da assumere quasi fattezze eroiche, da superuomo.
Ricalcano questa descrizione anche due dei ruoli giovanili di Depp, che hanno contributo a dare vita al suo mito: John Arnold DeMarco (Don Juan DeMarco, 1995), paziente psicotico e aspirante suicida, convinto di essere la reincarnazione del celebre amatore, che riesce a coinvolgere nella sua realtà, distorta ma affascinante, lo psichiatra che lo ha in cura; e Joseph D. Pistone, aka Donnie Brasco (Donnie Brasco, 1997), agente sotto copertura dell’FBI infiltrato tra le fila della Mafia newyorkese, la cui idea della società divisa in buoni e cattivi, verrà messa a dura prova dai forti legami di amicizia stretti in seno alla criminalità organizzata. L’interpretazione gli è valsa la definizione di migliore attore della sua generazione.
In questo contesto un commento a parte lo merita “lo strano e triste viaggio” del primo film da regista di Depp: The Brave (1997) di cui è anche co-autore. L’attore ha dichiarato che si è trattato di una delle imprese più difficili della sua vita, che lo ha quasi ridotto in pezzi. La grottesca storia di un Nativo Americano che, per garantire una vita dignitosa alla sua famiglia, accetta di essere torturato e ucciso in uno snuff movie, è valsa all’attore critiche feroci da parte della stampa americana. Ma Depp, ovviamente, si è detto affascinato dal tema centrale dell’opera: l’idea di “sacrificarsi per la famiglia”. Ed è sicuramente in linea con il suo personaggio il volersi cimentare, anche se con scarsa competenza, nel racconto di questa lenta e terribile discesa agli inferi.
Come molti dei personaggi che ha scelto di interpretare, Depp, per la maggior parte della sua carriera, è sempre stato fuori dal sistema, fuori da Hollywood: l’anticonformista, capelli sporchi su occhi magnetici, too cool for school. Ed esattamente per questo, osannato da critica e pubblico.
Ma, scherzi della vita, proprio il suo ruolo, il ruolo che lo ha consacrato, oh Capitano mio Capitano, lo ha anche inglobato nel sistema. Hollywood si è presa il ragazzo ribelle. Johnny Depp è diventato una star. Nel 2010, secondo la rivista Forbes, è stato l’attore più pagato al mondo.
Eppure l’inizio era promettente: la puntuale caratterizzazione di Sparrow, stramboide mai completamente a proprio agio nel mondo, lo metteva in diretta relazione con un altro dei ruoli topici di Depp, Edward (Edward Scissorhands, 1990).
La somiglianza tra i due personaggi è in primo luogo fisica: dall’espressione spiritata degli occhi, sempre bistrati di eye-liner (che si moltiplicano, disegnati, nel secondo capitolo della saga), alla peculiare andatura, ondeggiante e malferma sulle gambe. Depp ha dichiarato che per impersonare Jack Sparrow ha immaginato una persona che fosse rimasta troppo a lungo sotto il sole, in altre parole qualcuno che si fosse “bollito il cervello”. Mentre Edward Scissorhands è un bambino nel corpo di un adulto. Due caratteri quindi accomunati anche da una sorta di “leggerezza” mentale, da una visione del mondo falsata, stranita e straniante.
La similitudine è poi anche sociale, entrambi i personaggi, male interpretati nelle azioni che compiono quando si ritrovano, loro malgrado, all’interno di una comunità, diventano il capro espiatorio delle colpe altrui.
Decisamente pirateschi sono i personaggi nati dalla penna del grande scrittore e giornalista Hunter S. Thompson, amico fraterno di Depp, che l’attore ha portato sul grande schermo: Raoul Duke (Fear and Loathing in Las Vegas, 1998), alter ego di Thompson, degno rappresentante della mitica era dei Sixteen, nella quale tutti erano un po’ pirati, un po’ folli, convinti, a torto, che il loro slancio vitale avrebbe prevalso sulle “forze del vecchio e del male”; e 13 anni dopo – sottotono – Paul Kemp (The Rum Diary, 2011), altro alter ego di Thompson, e, paradossalmente, versione “giovanile” di Duke, di cui anticipa lo spirito autodistruttivo.
Probabilmente è nel sodalizio con Tim Burton, quasi sicuramente la relazione più solida e duratura nella vita di Depp, che l’attore ha avuto modo di esprimere fino in fondo, anche se in maniera via via sempre più superficiale, la sua visione di una società in cui il diverso fatica a trovare il suo posto ed alla fine è spesso costretto a usare la sua diversità come arma, metaforicamente e letteralmente (le lame giocano un ruolo da protagonista nella cinematografia burtoniana). Investigatori incompresi (Sleepy Hollow, 1999), cioccolatai inquietanti (Charlie and the Chocolate Factory, 2005), barbieri vendicativi (Sweeney Todd, 2007), cappellai matti (Alice in Wonderland, 2010), vampiri melanconici (Dark Shadows, 2012). Fa eccezione, forse, il lungometraggio sul “peggior regista di tutti i tempi” (Ed Wood, 1994), al quale Depp regala una magistrale affettazione, una dichiarazione d’amore al cinema, the art for art’s sake, e una storia sulle presa di coscienza ed accettazione della propria diversità.
Anche nei suoi ruoli più “normali” Depp sceglie di interpretare personaggi la cui percezione del reale è sfasata, di poco o di molto, rispetto a quella delle persone comuni. Abbiamo così un Gilbert (What’s Eating Gilbert Grape, 1993) imprigionato in una vita che non si è scelto, un già citato John Arnold DeMarco che, al contrario, si è costruito una realtà parallela a sua misura e un J. M. Barrie (Finding Neverland, 2004) che trova nella sua potente immaginazione un rifugio dalle asperità della vita.
Le interpretazioni quasi-da-oscar nei panni di Jack Sparrow prima e Sweeny Todd poi, hanno segnato una sorta di acme performativo per l’attore, che da lì in avanti sembra aver smesso di scavare nella psiche dei suoi personaggi per dargli anima e corpo, la sua anima e il suo corpo, per accontentarsi di replicare meccanicamente la teatralità esasperata dei gesti, lo sguardo vacuo e il sorriso da Stregatto. Noioso.
Il buon, vecchio Johnny è diventato una macchina da soldi. E quando sono iniziati i sequel, quando le sue fidanzate sono diventate troppo bionde, troppo belle e troppo comuni, il nostro bad boy ha smesso di crederci. Depp è diventato la parodia di sé stesso.
Per il suo legame di amicizia con il compianto Heath Ledger, morto durante le riprese de The Imaginarium of Doctor Parnassus (2009), lo troviamo intento a dare corpo ad una delle molteplici “facce” del protagonista Tony Shepherd, abile truffatore e affascinante furfante (cosa che deve aver convinto definitivamente Depp), perdendo il confronto con l’interpretazione dello stesso di Ledger.
Ancora, totalmente fuori ruolo nei panni di un ricercatori alle prese con controversi esperimenti in uno dei film più fallimentari del 2014, Trascendence.
L’interpretazione autocompiaciuta e iperbaffuta di Charlie Mordecai (Mordecai, 2015) costa a Depp una seconda nomination ai Razzie Award come “peggior attore protagonista”, dopo quella per il dimenticabile Tonto con tanto di corvo impagliato sulla testa, nell’ancor più dimenticabile The Lone Ranger (2013), kolossal western targato Disney, che ci ha rimesso fino all’ultimo centesimo. E tanti saluti agli avi cherokee.
Qualcuno poi ricorda Depp in The Tourist (2010)? Se la risposta è no non siete i soli. Stranamente il film è stato un successo al botteghino ed ha pure strappato tre candidature ai Golden Globe, compresa la coppia Jolie-Depp, tra le meno affiatate della storia.
Dicono che sia tornato. Smesse le macchiette, è stato un Gellert Grindelwald (Fantastic Beasts: The Crimes of Grindelwald, 2018) piuttosto convincente nel secondo, fortunato capitolo della saga. Ha abbandonato gli istrionismi, è composto, freddo, letale. Eppure arde di passione. Nel volto pallido e scavato vediamo un’eco dell’Edward di tanti anni fa, un Edward che ha definitivamente perso la fiducia negli esseri umani e, for the greater good, ha deciso di asservirli alla sua personale (e noi sappiamo quanto) visione del mondo.
Minamata non ha convinto a Berlino, dove ha invece trionfato il cinema italiano. Ma Depp c’è. Invecchiato artificialmente per assomigliare a Smith, artista profondamente segnato dall’esperienza della guerra, che trova consolazione nell’alcol e nella dedizione assoluta al suo lavoro di testimonianza e denuncia, con reportage che sono entrati nella storia della fotografia (come quello su Minamata appunto), l’attore per descrivere il suo personaggio parla di survival mode. Come tanti dei caratteri interpretati anche questo sembra sopravvivere, più che vivere, nel mondo, ma soprattutto al mondo.
«A cosa serve una grande profondità di campo se non c’è un’adeguata profondità di sentimento?» si chiede W. Eugene Smith, ed è proprio la “profondità di sentimento” quella che caratterizzava il primo Depp, che ha dichiarato in una intervista a ET Canada durante la Berlinale come calarsi nei panni di Eugene lo abbia fatto pensare agli altri biopic della sua carriera, su tutti Donnie Brasco, e della sua convinzione che per dare veramente vita al personaggio sullo schermo sia necessario instaurare una connessione profonda con lui e la sua storia. Ed è questa stessa profondità di sentimento che speriamo che il nostro caro, cattivo ragazzo abbia infine recuperato.
Dicono che sia tornato. Forse è così. Vogliamo crederlo.