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Cinema Brand Napoli ®

 

 

Brand – Termine inglese, nel linguaggio della pubblicità e del marketing aziendale, marchio di fabbrica. Contrassegno originale, grafico o figurativo, applicato ai prodotti di un’impresa per distinguerli da prodotti simili di altrui fabbricazione.

 

Sintetizza la notorietà e l’immagine che un’offerta è stata in grado di consolidare presso un determinato pubblico di riferimento; la percezione del sistema di offerta da parte dei clienti si riflette nell’identità (brand identity), nell’immagine (brand image) e nel posizionamento di marca (brand positioning). Mai come oggi, il significato intrinseco di quella parola “offerta” può assumere molteplici forme: le regole del mercato tradizionale sono state stravolte dall’avvento dell’era digitale, in cui l’obiettivo non è più fornire una risposta a un bisogno, ma indurne la nascita di nuovi al fine di poter vendere altrettante nuove risposte. In quest’ottica, il brand non è più soltanto l’identificativo di una casa produttrice di beni di consumo, possano essi essere di prima necessità o di svago, prodotti o servizi, come nella classica definizione del marketing. Un brand è tutto quello che riesce a suscitare emozione, empatia e, soprattutto, desiderio. Di conseguenza, tutto può essere un brand.

 

Quando il brand è una persona

Quando una qualsivoglia personalità, sia essa un politico o un manager, costruisce la propria reputazione attraverso il suo operato, combinandola con l’azione congiunta dell’attenzione ad essa riservata dalla critica e dal pubblico, diventa un brand; ne sono esempi Richard Branson e Barack Obama. Tale fenomeno diventa ancora più evidente, quando si parla di un artista: tra i criteri per valutarlo si aggiungono il movimento di cui è espressione, la nazione a cui è ricollegato, così come i suoi aspetti personali o la rottura di tutti gli schemi appena citati. Un brand può fagocitare l’artista stesso, rendendolo in qualche modo prigioniero del percepito altrui e facendo in modo che la sua importanza sia sempre collegata a quella precisa immagine di sé, cristallizzata nella mente del pubblico, a prescindere dal reale valore delle sue opere. Per quanto Christian De Sica possa sforzarsi nel recitare in film impegnati con Pupi Avati e portare Gershwin nei teatri di tutta Italia, sarà sempre l’ambasciatore de “Na cafonata”, marchio di fabbrica del brand “Cinepanettone”. Se passiamo alla sfera musicale, notiamo come moltissimi cantanti della scena internazionale, più o meno recente, siano diventati dei brand, in primis i Beatles, fino ad arrivare a Lady Gaga, passando per Springsteen, Madonna e Michael Jackson. Se facciamo un salto indietro nel passato e rispolveriamo un esempio più “alto”, possiamo renderci conto che anche gli scultori che hanno riempito di capolavori la nostra patria erano, a loro modo, dei brand di sé stessi. È noto ai più che ogni famiglia papale avesse il suo artista di fiducia, anche se in quel caso i brand-artisti diventavano sponsor tecnici del più grande e longevo brand mai esistito al mondo: il brand-Chiesa. La proporzione Bernini-Pamphili sta a Borromini-Barberini come Adidas-Real Madrid sta a Nike-Barcellona. Questo perché le dinamiche non sono poi così diverse da quelle odierne, solo che all’epoca non ce n’era consapevolezza o, banalmente, le cose venivano chiamate con altri nomi; quello che è sicuro è che certe regole sono state scritte molto tempo prima di qualsiasi influencer sposata con un rapper a caso.

 

 

Quando il brand è un film

Se abbiamo appena affermato che un artista o la sua corrente può essere un brand, il cinema, in quanto settima arte, è ovviamente investito da questo processo di “marketizzazione”. Basti pensare al fenomeno Guerre Stellari, che è stato il primo film a sancire la nascita del concetto moderno di “universo cinematografico”, che oggi trova largo impiego sin dalla fine dello scorso millennio, cominciando da “Harry Potter”, passando per “Il Singore degli Anelli”, fino ai cinecomics Marvel e DC. In questo caso parliamo, però, di saghe, ma non sono l’unico caso in cui assistiamo al proliferare di sequel, spinoff, standalone, prequel, midquel o altre tipologie di pellicole il cui nome ricorda un super alcolico – “Per me un Vodka Midquel!” “Io invece vorrei uno Spinoff con ghiaccio, agitato, non mescolato.” – entità che hanno senso di esistere solo perché tasselli di un mosaico più grande. Se magari il singolo lungometraggio di “Iron Man”, così come “L’Impero Colpisce Ancora”, riescono ad avere una dignità autonoma, pur essendo un pianeta all’interno di un sistema solare, altri prodotti come “El Camino” o il nostrano “L’immortale” perdono completamente valore se decontestualizzati da “Breaking Bad” o “Gomorra”, i loro brand di riferimento che diventano, di conseguenza, un franchise. L’uso di quest’ultimo termine, per alcuni intellettuali, potrebbe essere causa di reflusso gastroesofageo, sebbene sia qualcosa di reale e ineluttabile come il villain Thanos. Persino “Parasite”, pluripremiato lungometraggio di Bong Joon-ho, non è più considerato un outsider, “quel film coreano di quel regista dal nome impronunciabile”. Ormai il film porta con sé tutto un mondo che il pubblico internazionale, in pochissimo tempo, sta rendendo parte del proprio DNA, cominciando dalla riscoperta delle precedenti pellicole, ridistribuite su Netflix e nelle sale, fino alla produzione di una serie tv originale per HBO.

 

 

Quando il brand è un luogo

Alcuni studiosi di marketing fanno risalire la nascita del concetto di brand al Cammino di Santiago. No, non si sono scolati uno Standalone alla goccia, se volete saperlo! Quello che oggi è il simbolo del celebre itinerario, la conchiglia, in origine era la prova tangibile di aver intrapreso quel viaggio: si trattava di un ricordo che i pellegrini raccoglievano dalle spiagge della Galizia, tappa finale del percorso. Simbolicamente, le sue striature che si chiudono in un unico punto rappresentano i diversi itinerari che insieme convogliano tutti a Santiago de Compostela. Per evitare che qualche malcapitato rischiasse di perdersi, divenne un’effige posta su alcune pietre disseminate lungo i vari percorsi: un elemento riconoscibile che, se da un lato serviva banalmente come un landmark o un segnale stradale ante litteram, era portatore intrinseco di tutti i valori in cui i viaggiatori si identificavano: sacrificio, fede, passione; diventava qualcosa di riconoscibile e distintivo rispetto a qualsiasi altro tragitto, proprio come un brand. Anzi, era molto più un brand in tempi remoti, rispetto a oggi, dove le conchiglie fanno parte di un becero merchandising turistico, declinate in ciondoli e calamite, epurate del loro essere patrimonio culturale e intellettuale comune.

Su questa scia, tantissimi luoghi del mondo sono diventati dei brand, basti pensare alla Grande Mela: ambientazione di innumerevoli capolavori (e non) del cinema, della tv e di videoclip, musa ispiratrice di compositori e artisti, metafora di un Sogno Americano mai estinto. Di fatti, costruire brand intorno alle città è una diffusa pratica del marketing turistico, che reinterpreta in chiave consumistica il senso che aveva la conchiglia iberica: tornare con indosso la maglietta I ♡ NY, quella del Pacha di Ibiza con le sue ciliegine o dell’Hard Rock Cafe di qualsiasi angolo del globo è la prova tangibile della nostra vita fantastica, che siamo dei viaggiatori e ci godiamo la vita, con annessa foto sui social ovviamente.

Discorso simile è quello del brand Milano, la città che non si ferma, la città dove tutti vogliono vivere,  l’America per migliaia volenterosi studenti e inoccupati provenienti dall’Italia da cartolina ma priva di possibilità. Il capoluogo lombardo è rinato grazie anche all’illuminata amministrazione del sindaco Sala, il cui ruolo di primo cittadino spesso si confonde con quello di brand ambassador, rendendo “solo la nebbia” un vago ricordo e proiettandosi verso il futuro come punto di riferimento italiano per il resto del mondo; Milano che ospita l’EXPO, Milano che accoglie le diversità con il Gay Pride, Milano che accontenta tutti per tutti i gusti con settimane ad hoc: fashion week, design week, cyber week, tutte rigorosamente dal titolo anglosassone, del resto siamo un’eccellenza italiana (Quello Standalone on the rocks era veramente pesante!).

 

 

Quando il brand è Napoli

Prima che vi sovvenga un qualsiasi dubbio, faccio outing: sì, napoletano “lo nacqui”. So già a cosa starete pensando, ma non è per ragioni di campanilismo che dedico un intero paragrafo a parte al discorso legato alla mia città. Di “brand Napoli” si parla da un po’, lo fa in maniera molto approfondita Francesco Abazia in un articolo del 2018 su Vice, che mi ha dato parecchi spunti di riflessione, permettendomi di avere una visione più organica e razionale di quelli che nella mia testa erano pensieri in libertà, sensazioni, un po’ come un flusso di coscienza alla Joyce.

Napoli di per sé è più di una città, è un mondo, un ecosistema, un universo culturale dalle mille sfaccettature; vive di contraddizioni, in lei convivono sacro e profano, aulico e prosaico, riesce a essere al contempo madre amorevole e matrigna. In realtà per moltissimo tempo è stata la Cenerentola d’Italia, al suo nome erano indissolubilmente legati temi quali Camorra, immondizia e Terra dei fuochi. Nell’ultimo decennio, come Milano, ha attraversato un notevole percorso di cambiamento, ma in maniera differente: al netto di un paio di stazioni della Metropolitana dell’Arte, non ci sono state reali trasformazioni morfologiche o infrastrutturali nel tessuto urbano, al contrario di quanto avvenuto nella città della Madunina, bensì solo una variazione del percepito della città stessa. In concomitanza della Coppa America del 2012, l’unico intervento degno di nota, talmente piccolo se paragonato all’eco mediatica che ha generato, è stata la pedonalizzazione del lungomare, definito da quel momento in poi “Liberato”, come la Gerusalemme di Torquato Tasso; tra l’altro, non c’è stato nessun restyling urbanistico, hanno semplicemente interdetto il passaggio delle auto. Improvvisamente, riappropriandosi di uno spazio della città, per i partenopei è come se fosse avvenuta un’epifania, trasformando in un tesoro un diamante grezzo che avevano avuto tra le mani per un eternità. Da lì, nel giro di pochi anni, il turismo ha raggiunto picchi imprevedibili, portando alla nascita di piccoli alberghi e b&b, che hanno proliferato come funghi.

Contestualmente, risorgeva dalle sue ceneri anche la SSC Napoli, che, dopo più di un ventennio, nel 2011 ritornava in Champions League, per poi vincere la Coppa Italia l’anno successivo. Riapprodare sulla scena del calcio dell’Europa dei Grandi, oltre alla possibilità di tenere testa alle “squadre del nord” sono stati fenomeni che hanno contribuito a rilanciare l’immagine della città in Italia e all’estero; hanno fortificato quel concetto di brand che esula dall’ambito geografico, ma ne assume le caratteristiche a 360 gradi. Non è un caso che il capoluogo campano non abbia un rapporto biunivoco con i suoi artisti, come può accadere tra un esponente di una qualsiasi cultura locale e il luogo stesso: Totò, Massimo Troisi e Pino Daniele possono essere considerati artisti in maniera universale, a prescindere dalla loro origine, ma il loro essere portatori sani di napoletanità, dà alla loro arte un valore aggiunto; al contrario, la città sarebbe culturalmente e immaginariamente autosufficiente anche se la si privasse dei suoi portavoce. È una città viva, un cuore pulsante. La riprova è che di questa preziosa linfa vitale si sono appropriati e se ne sono fatti ambasciatori personaggi che avevano altra provenienza geografica, Renzo Arbore e Lucio Dalla, per citarne i più celebri.

 

 

Nel mondo del cinema, è eclatante il caso di Lina Wertmüller, prima donna ad aver ricevuto un Oscar alla Carriera, che ha ambientato parecchie sue pellicole a Napoli, per la quale non ha mai nascosto il suo smisurato amore, difendendola a spada tratta contro chi cercava di mistificarne l’immagine. Nel 2015, il sindaco Luigi de Magistris le ha infatti conferito la cittadinanza onoraria della città. Nemmeno Özpetek ha resistito al fascino partenopeo, ambientandovi il lungometraggio del 2017 “Napoli velata”; vista dai suoi occhi, Napoli ha anche tanti altri aggettivi: carnale, pagana, enigmatica, dionisiaca, mediterranea e soprattutto “femmina” in quanto opulenta, inafferrabile nonché madre accogliente di cui sopra. Oltre a porre enfasi su questi aspetti meno mainstream, il film ha permesso anche la nascita di nuovi itinerari, un turismo quasi letterario, alla scoperta dei luoghi in cui è ambientato; niente di diverso da quanto accade in Croazia con le location di Game of Thrones. In questo caso si tratta di “Game of Terrones”. Si tratta di un esempio di quello che accade nel cosiddetto Marketing 4.0, in cui il rapporto con l’utente avviene attraverso più punti di contatto, secondo una logica che viene definita omnicanale (dal britannico omnichannel). “L’amica geniale”, ambientato nella Napoli degli anni ’50, da best seller internazionale è diventato una serie televisiva di successo, giunta ormai alla seconda stagione; nasce dalla penna di Elena Ferrante, autrice la cui identità è avvolta nel mistero, tema ricorrente tanto nella tradizione partenopea, quanto nel marketing stesso, dato che è una tattica per generare hype, strategia di marketing atta a creare forte attesa per un prodotto. Caso analogo è quello di Liberato, progetto discografico che ha dato nuova vita alla musica napoletana, contaminandola con influenze trap ed elettroniche. Non si sa se sia un cantante in carne e ossa o si tratti di un prodotto creato ad hoc, in cui un frontman, che non viene mai inquadrato in volto, canta con una voce registrata in studio; non sarebbe certo una novità in questo campo, per citare un esempio ironicamente connesso al preciso istante in cui sto scrivendo (marzo 2020): Corona di “The Rythm of the Night” era un gruppo eurodance molto in voga negli anni ’90 che era costituito dal produttore Francesco Bontempi e da Olga Maria de Souza, la quale rappresentava solo il volto del progetto, facendosi “prestare” la voce da Jenny B, cantante italiana nota per aver collaborato con Alan Sorrenti e i Gemelli diversi. Siamo di fronte al primo caso, però, in cui un progetto di questo tipo nasce in un contesto estremamente territoriale per poi essere esportato su scala nazionale. Liberato, il cui nome è anche un richiamo al lungomare simbolo della rinascita partenopea, non comunica solo attraverso la canzone, ma, per i videoclip dei suoi singoli, viene ingaggiato Francesco Lettieri, noto regista del panorama indie, che vanta collaborazioni con Calcutta, Motta e The Giornalisti. Tra i suoi miti convivono pacificamente Troisi ed Eduardo con Tarantino e Woody Allen, in puro stile Napoli, per intenderci: contaminazione, come abbiamo già detto, è la parola d’ordine; ogni brano è trattato come un cortometraggio a sé stante, ognuno con un suo stile visivo, passando dal bianco e nero del mare caprese – strizzando l’occhi a quei Dolce & Gabbana che per tre giorni hanno blindato la città per un maxi evento mondiale usandola come set tra sfilate, glamour e opulenza barocca – ad atmosfere vintage, per poi passare a ritratti pasoliniani delle periferie urbane. Lo stesso sguardo neorealista lo ritroviamo nella sua opera prima, Ultras, lungometraggio rilasciato su Netflix in concomitanza dell’arrivo della primavera.

 

 

Prendi “Hooligans” di Lexi Alexander (2005) e calalo nella realtà napoletana del tifo organizzato, dove il gruppo degli Apache affronta il delicato tema del ricambio generazionale, tra vecchie glorie che sono legate a determinati “valori” e nuove leve che, invece, vogliono lasciare il segno. Sembra strano parlare di valori in un contesto di personaggi facinorosi e dediti alla violenza, eppure il senso di appartenenza a un gruppo, il valore del singolo che non conta niente senza l’appoggio del branco e il relativo spirito di sacrificio per quest’ultimo sono temi imprescindibili per i protagonisti; d’altronde il calcio per molti è una fede, come per Sandro, detto Il Mohicano, che afferma che credere nella famiglia degli ultras è come credere nella Madonna. Lo dimostra il fatto che i cori da stadio irrompono prepotentemente anche nelle funzioni religiose. Torna nuovamente la promiscuità tra sacro e profano, che si evince anche dalla fotografia di Lettieri, il quale alterna sapientemente immagini di edicole votive a pizze fritte, gli immacolati luoghi di culto ai moderni templi nazionalpopolari, gli stadi. Infine, emblematica è l’antitesi tra l’apertura del film, che vede una carrellata degli episodi di scontri tra ultras e forze dell’ordine e la chiusura, dove le vedute da cartolina del golfo sembrano quasi un video a scopo di promozione turistica. Non siamo di fronte al nuovo capolavoro del cinema italiano, né a qualcosa che darà un valore aggiunto alla napoletanità di cui abbiamo tanto parlato, ma l’operazione di questo prodotto è l’ennesimo tassello che contribuisce a cristallizzare l’immagine del mosaico “brand Napoli”. Un’operazione che in realtà non fa altro che depauperarla, a privarla della sua anima autentica a favore di una gentrificazione che la appiattisce, privandola di personalità. Un’operazione che trasforma la preziosa conchiglia, portatrice e custode di valori, in una calamita da attaccare al frigo.

 

Nasce nel 1988 e quasi contemporaneamente impugna la sua prima matita, mostrando una innata passione per il disegno che lo porterà a conseguire il titolo di dottore in architettura. Poi, all’alba dei 30 anni, il plot twist: rinnega questa fede per approdare al mondo della comunicazione.