
Quindi, Favolacce?
“Be’, Spinaceto pensavo peggio. Non è per niente male!” Nanni Moretti in Caro Diario.
Fabio e Damiano D’Innocenzo, “I fratelli D’Innocenzo”, parlano con un accento romanesco marcato, con quel “de” usato per inclinazione al posto del “di”, specialmente quando la voglia di esprimere il concetto supera il timore stesso di come esprimerlo. In quasi tutte le foto che li ritraggono sembrano dei poser, che indossano agilmente sia tute in acetato che camicie un po’ anni settanta. Si tengono la mano, si abbracciano, si fanno fotografare in pose speculari. Hanno sempre un fare corrucciato, ma anche ambiguo: come se stessero sempre sul punto di ridere, anzi di ghignare. I capelli sono arruffati ma non fuori posto.
“Favolacce”, come loro stessi amano dire è la seconda opera prima, e non semplicemente la seconda opera. Un espediente retorico per preparare il terreno e sottolineare l’importanza di scardinare i propri preconcetti, e le certezze acquisite anche dopo un solo film apprezzato da pubblico e critica (ma in generale, applicabile anche a cineasti navigati), per poter indagare anzitutto il proprio cinema ed il modo in cui si concepisce il mezzo cinematografico. I due fratelli, consapevolmente o meno, questa scelta l’hanno in effetti messa in atto. Alla seconda opera – terza, contando la sceneggiatura di Dogman -, riescono in parte a restare fedeli ad una personale narrazione iniziata con La terra dell’abbastanza, in parte a fare un salto in avanti verso un certo espressionismo visivo che pare evoluzione naturale della loro scrittura; sembrando del resto l’unico modo per sintetizzare le influenze – anche queste più o meno consapevoli – del cinema italiano; di Garrone, a loro vicino per ovvi motivi, ma anche di Fellini, o di Pasolini, forse quest’ultimo più di tutti per un aspetto ben sottolineato da Goffredo Fofi su Internazionale, parlando del loro film precedente. Ovvero che Favolacce, come La terra dell’abbastanza, è un film dall’alto valore sociologico “in un paese dove la sociologia sembra defunta”. Al di là dell’intrinseco e naturale valore sociale, c’è un aspetto che ha a che fare con l’indagine, con la scelta di usare il mezzo per uno scopo di analisi, con lo spettatore chiamato ad una parte quasi attiva. Il confine è sottile, perché il valore sociale di un’opera sembra presupporre anche l’approccio sociologico di un autore, ma non è così. Un regista può porsi l’obiettivo di analizzare, senza necessariamente dare un giudizio (personalmente non credo sia possibile, ma diversi autori, anche celebri hanno rivendicato questo ruolo apolitico), e può anche imprimere un forte valore sociale ad un film, scegliendo di non utilizzare la cinepresa per scopi di studio. Questa rediviva vena sociologica che Fofi individua nel cinema due fratelli, è indissolubilmente legata con il valore sociale che è presente, vivissimo, nella retorica che regge la storia.
Normalità
C’è una frase scritta sulla quarta di copertina del libro “Sottomissione” di Michel Houellebecq, molto breve ma che rappresenta una delle poche cose belle di un libro poco riuscito anche se molto pubblicizzato (era il periodo del Bataclan, della paura legata al terrorismo Jihadista in Europa, e quel libro parve essere profetico – anche se non ho mai capito il perché). La frase dice: “Ero un uomo di una normalità assoluta”.
Guardando il film più di una volta mi è venuta in mente quella frase. I protagonisti del film non leggono, non guardano un film e non ascoltano musica. Sono inebetiti davanti al televisore, comunicano con un tono di voce alto, ma usando parole storpiate, dialettali ed anche mezze masticate. Vederlo senza sottotitoli in alcuni casi equivale a non comprendere del tutto alcune frasi. Ad una prima valutazione sembrano essere di una normalità angosciante; certo una normalità intesa quanto normalizzazione e conseguente appiattimento intellettuale e culturale, ma dopotutto normali. Al netto di qualche stortura, e di uno stato di angoscia ed esasperazione più simili a sintomi, e perfettamente espressi da tutti gli attori, quello che potremmo dire di aver visto è un contesto prevalentemente sano.
Ho detto i protagonisti, ma la realtà è che esiste una parete spessa e trasparente, tra figli, silenziosi, che posano le parole e si muovono persino lentamente, ed i genitori. Ripensando al film, gli unici termini che mi vengono in mente per parlare del rapporto tra i bambini e i loro genitori, provengono dall’etnologia, quasi come se fossimo di fronte ad una specie culturalmente evoluta che guarda, tra l’altro senza giudicare, una specie definitivamente involuta. I piccoli protagonisti sembrano essenzialmente osservatori esterni, così distanti ed informati da trasformare i genitori in oggetto di studio. Fino alla scelta di una emancipazione nuova, ed atroce ovviamente.
E la normalità – che mi pare essere così assoluta ed insopportabile, già dalla prima visione – è quella di un contesto non povero, anzi moderatamente agiato, per gli standard attuali, quantomeno. L’assenza di povertà la trovo una chiave di lettura indispensabile, perché libera dal piano del giudizio un elemento a cui spesso, troppo facilmente, si fa riferimento. Ovvero che per parlare della periferia, umana ed urbana, si debba necessariamente passare per la povertà economica, altrimenti la miseria non è poi così misera, l’indigenza diventa tuttalpiù nevrosi, quasi vezzo.
C’è un equilibrio perfetto tra alienazione e disperazione, nel film di Damiano e Fabio D’Innocenzo.
I protagonisti non sono benestanti, ma non sono neanche poveri. Il contesto non è sporco, brutto ed ostile, le case sono geometriche ed ordinate, spaziose ed anche nuove. Se cade l’alibi della disumanità causata dall’ambiente, allora si è costretti a guardare altrove. Mi è sembrata una critica radicale all’ambizione di raggiungere un obiettivo pagando il prezzo di impoverirsi culturalmente. Quella natura animalesca e banale della borghesia Bunueliana, che si è diffusa come un virus su tutte le classi sociali desiderose di una bella casa, un lavoro, dei voti alti per i propri figli. Ma nient’altro. Con la fascinazione discreta della classe media del tutto scomparsa, che ha fatto posto ad un’attrazione molto più primordiale. Questa piccola borghesia è così carica di rabbia e di pulsioni, che ci sembra possibile ed attuabile solo tramite l’immagine di Elio Germano e Max Malatesta che commentano la giovane ragazza con parole quasi del tutto incomprensibili, ed uno sguardo privo del benché minimo briciolo di ragione. Ed è estremamente significativo che l’unico a salvarsi sia l’estraneo a quella normalizzazione. Il personaggio mai entrato nella classe media, a metà strada tra la mezzadria ed il sotto-proletariato Pasoliniano.
Quelle immagini delle villette a schiera sono così finte da ricordare Dogville di Lars Von Trier, o come dice sempre Goffredo Fofi , “un quartiere nuovo di Roma sud, che con le sue villette, il suo verde e i suoi garage può far pensare a centinaia di situazioni urbane simili, in Europa, in Nordamerica e perfino in paesi più poveri, latini o asiatici”, è la fotografia perfetta della normalità che non vuole alcuna interferenza, che cerca di autoalimentarsi, finendo per autodistruggersi. Quelle vie che sembrano il mondo di Truman Burbank sono la trappola da cui gli unici personaggi dotati di coscienza decidono di sfuggire – salvare se stessi, non essendo riusciti a salvare tutti.
È indubbiamente doloroso dire che quello compiuto sia un gesto di libertà, o ancora meglio di liberazione. Ma lo è a tutti gli effetti. Perché rompe anche l’ultimo punto di contatto tra quegli adulti condannati e quei bambini che non vogliono patire la condanna dei genitori. La sequenza finale di Elio Germano è spaventosa, straziante e bellissima.
Aspettare un film
Il modo in cui il film è stato presentato e successivamente accolto dopo la vittoria, hanno incrementato così tanto la tensione tra spettatore ed opera, che diventa molto complicato parlarne. Purtroppo è il paradosso della comunicazione sul cinema che si sta configurando sempre con maggiore insistenza, e che come ogni cambiamento non è né dannoso né benefico, almeno non a priori, ma va preso in considerazione quando si prova a fare qualche ragionamento in più sull’opera. Se si parla tanto di un film, e addirittura se si vede anche molto prima del tempo, il rischio di essere condizionati è enorme, e rischia anche di impoverire il cinema di un elemento essenziale, ovvero quello per cui guardare un film è innanzitutto un’esperienza personale, che deve spingere ad una riflessione personale. Se io guardo un film e questo suscita in me un certo tipo di ragionamento, coerente o meno con il messaggio della pellicola, in un certo senso ne ho compreso già il fine. E quindi, al di là del messaggio iniziale, il film ha raggiunto lo scopo quasi primordiale, spingere le persone a pensare (o pensare ed emozionarsi, in una specie di terra di mezzo dai contorni indefiniti).
Non si tratta neanche – o non solo – della considerazione per cui l’opera artistica ha una componente essenziale nella soggettività (questa è una fesseria, se un film è brutto, lo è oggettivamente, lo stesso vale per un quadro o un brano musicale. È semmai la complessità stessa di un’opera che ne definisce la ricchezza e la possibilità di sfiorare molte sensibilità, tutte legittime).
Di “Favolacce” si è già detto tanto, purtroppo anche con quella cattiva abitudine di usare slogan o claim pubblicitari tipici della vendita di un prodotto (certo, è un prodotto, ma è anche qualcosa di complicato, che va trattato come tale) destinati a semplificare ogni cosa. E quindi “Favolacce” è un gran film perché tautologicamente lo è. Solo che in questo modo chiunque finirà per vederlo non ci leggerà mai qualcosa, si accoderà anche involontariamente ad una costruzione impersonale. Riducendo il film ad un truismo. Il film dei Fratelli D’Innocenzo è un’opera bellissima, visivamente così ricca da poter essere vista anche tre, quattro volte di seguito, senza perdere mai il gusto di notare scelte raffinatissime. Ma questa bellezza, questo pregio, esigono anche uno spirito critico che si ponga il dubbio se essere o meno d’accordo con quell’analisi. Un gran film lo è per il modo in cui ci spinge ad interpretare la realtà, a ricordarci che riflettere su qualcosa è anche provare a capire ciò che neanche l’autore pensava di aver espresso. La ciclicità e la capacità di essere reinterpretato: qualsiasi grande autore vorrebbe questo per il proprio film.