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Siamo tutti Ultras

 

Nel cinema il calcio funziona quando l’occhio è puntato sul cuore pulsante, e quindi sui tifosi. 

 

Durante l’interminabile quarantena, in totale astinenza di calcio, cercavo disperatamente una soluzione. Passata la fase di rewatch di partite storiche e momenti memorabili della nostra Nazionale, questa sensazione di vuoto non accennava a diminuire. E allora mi è sembrata l’occasione giusta per recuperare quei film di culto che non parlano tanto di calcio giocato, ma di sottoculture, senso di appartenenza e precisi codici d’onore. In parole povere: il tifo. Un argomento che tutti pensano di conoscere, ma che nasconde un mondo sommerso che ci viene raccontato poco e male, come succede sempre quando si tende ad appiattire e banalizzare temi complessi.
Ognuno dei cinque film racconta un carattere diverso della figura del tifoso, che ci permette di esplorare un ventaglio di registri che varia dal comico al drammatico.

1. Ultras
, di Francesco Lettieri (2020)

Partiamo dal più recente in ordine cronologico. È disponibile nel catalogo di Netflix dal 20 marzo ed è l’opera prima di Francesco Lettieri, regista di numerosi videoclip tra cui quelli di Calcutta, Motta e Liberato. La mia curiosità verso il suo primo film deriva proprio dal suo background musicale, dato che in passato ho sempre apprezzato registi che hanno avuto un percorso analogo. Due nomi su tutti: Spike Jonze e Michel Gondry, anche se quello di Lettieri è chiaramente uno stile diverso, meno visionario e più attaccato alla realtà.
Le idee alla base dei suoi video non sono mai banali, e soprattutto grazie alla sequenza dei singoli di Liberato, Lettieri ha saputo sviluppare una serie di storie non autoconclusive ma collegate tra loro, in modo da ricreare un piccolo mondo con dei canoni estetici precisi e riconoscibili. E in Ultras Lettieri ha proseguito il suo lavoro di narrazione di vicende locali dal grande coinvolgimento emotivo, senza modificare i propri stilemi visivi ma anzi rafforzandoli ancora di più.

Lo scenario è inevitabilmente la Napoli raffigurata in Nove Maggio Me Staje Appennenn’ Amò, in cui si raccontano i dissidi all’interno del gruppo ultras degli Apache. Il gruppo è capitanato da Sandro (Aniello Arena), fondatore e appartenente alla vecchia guardia, che però a causa di una diffida non può più andare allo stadio. Ed è proprio tra vecchia guardia, in declino per questioni di età, e nuove frange che comincia una guerra generazionale per avere il controllo decisionale sul gruppo. Tutto questo accade mentre il sedicenne Angelo vuole entrare nel mondo dei “grandi” per vendicare il fratello morto anni fa durante dei tafferugli allo stadio, ma allo stesso tempo vede l’Apache Sandro come la sua guida. 

 

 

“L’ultrà”
C’è chi lo ha definito un film pieno di stereotipi e luoghi comuni sul tifo organizzato e sulla violenza negli stadi. Trovo invece che Lettieri abbia saputo raccontare con grande umanità le vite di persone che non riescono a sopravvivere ai propri errori. L’Apache Sandro, interpretato da un sempre grandioso Aniello Arena, è un capo ultras che cerca di voltare pagina per prendersi in mano la propria vita, reagire alla soglia dei cinquant’anni, quando molte opportunità sono ormai compromesse. E cerca di evitare al giovane Angelo la stessa sua triste sorte. Una trama esile e lineare, che ci mostra un mondo chiuso che vive di regole proprie e altrettante sofferenze. Il calcio giocato c’è poco e nulla, sta sullo sfondo, mentre le motivazioni degli ultras valgono tutti i giorni della settimana, per tutti i mesi, per ogni campionato. È una morbosa ossessione che diventa ragione di vita, dove nella vita non si ha altro. E, d’altra parte, come potremmo meglio definire il calcio se non il più classico degli amori non corrisposti?

2. Hooligans
, di Lexi Alexander (2005)

Green Street (questo il titolo originale) è probabilmente il film più conosciuto tra quelli a tema ultras, e infatti è una produzione indipendente americana che però si è potuta permettere di coinvolgere il protagonista della trilogia de Il Signore degli Anelli.

Hooligans è diventato un cult soprattutto grazie alle scene in cui si intonano gli inconfondibili cori del West Ham. Va riconosciuta anche un’attenzione maniacale nel dress code del gruppo di tifosi guidati da Charlie Hunnam, tutti vestiti con i brand “giusti” nel pieno rispetto della terrace culture, dai cappotti Stone Island ai giacchetti Henri Lloyd, fino alle adidas ai piedi. Peccato però che, oltre all’estetica impeccabile, il film sia scritto veramente male.

 

 

“Lo yankee”
È il soprannome da subito affibbiato a Matt Buckner (Elijah Wood), dovuto alla forte ostilità delle firm (gruppi organizzati di tifosi) nei confronti degli statunitensi. Matt decide di trasferirsi a Londra dalla sorella dopo essere stato ingiustamente espulso dall’Università di Harvard, dove studiava giornalismo seguendo le orme del padre, che lavora al Times. Una volta arrivato in Inghilterra, Matt fa amicizia con Pete (Charlie Hunnam), leader degli hooligans del West Ham e fratello di suo cognato. Un incontro che lo segnerà a vita.

Le ottime premesse del film però non bastano. La storia si appiattisce in una specie di buoni contro cattivi che non porta da nessuna parte, e non ci trasmette la difficoltà e le contraddizioni di chi vive sempre in bilico tra violenza e forze dell’ordine. È frustrante vedere alcuni personaggi che compiono azioni incomprensibili, e poi si disperano una volta ottenute le inevitabili conseguenze. Anche il difficile rapporto tra il protagonista e la sua famiglia, un elemento cardine che sta alla base di tutta la vicenda, è rappresentato in maniera sterile e banale, in linea con i classici luoghi comuni di padri di successo e figli incompresi.

La morale sembra essere “bastava incontrare un gruppo di ultras per diventare figo e vincere la timidezza, ora posso affrontare la vita.” È una semplificazione che delude chi si aspettava una maggiore profondità, e svela la vera intenzione del film: sfruttare il lato cool del tifo inglese per fare un film per ragazzi, senza insegnare loro nulla.


3. The
Firm, di Alan Clarke (1989)

Film tv poco celebrato, recuperabile in italiano su YouTube da un’improbabile messa in onda su Canale 5 (!), con una qualità di registrazione ovviamente molto bassa. Il protagonista è un folgorante Gary Oldman, perfetto per interpretare Bex Bissell, un agente immobiliare ben inserito nella società londinese che si trasforma in un leader violento e carismatico di una delle firm a sostegno del West Ham.

 

 

 

“Il leader”
Sicuramente si tratta di un film da recuperare, molto importante nel racconto di certe sottoculture della patria del calcio. Con la sua regia asciutta ed essenziale Alan Clarke va dritto al sodo, arriva presto alla violenza come metodo di confronto, fino ai rapporti familiari sempre tesi e all’importanza del senso di appartenenza. La lotta per la supremazia tra bande è condensata nella rivalità tra il protagonista, persona apparentemente mite ma con lo sguardo famelico, e Yeti, un iconico Phil Davis che si contrappone all’incravattato Bex anche per l’estetica da eccentrico cattivo dei fumetti.
La breve durata (poco più di un’ora) però ci impedisce di approfondire le storie dei comprimari di Bex Bissell, che con una sceneggiatura più sfaccettata avrebbero avuto lo spazio che meritavano. The Firm resta comunque un onesto racconto di guerra tra bande unite solo dalla passione per la stessa squadra.

 

4. Febbre a 90°, di David Evans (1997)

Commedia cult che non poteva mancare. Più che un racconto sul tifo organizzato, è la confessione di un malato di calcio che ammette quanto la sua vita dipenda dai risultati della propria squadra. La candida ammissione di un caso clinico, descritta con acuta ironia e tremenda onestà da Nick Hornby nel romanzo che dà origine a questa trasposizione cinematografica diventata un classico. 

 

 

“Il sociopatico”
Paul Ashworth (Colin Firth) è un insegnante di lettere ossessionato dall’Arsenal. La sua vita è dettata da questo amore travolgente e irrazionale, che lo fa esultare e soffrire proprio come se fosse coinvolto in una relazione tumultuosa. Pessimista e irascibile, Paul è incapace di crescere come tutti, assumendosi le proprie responsabilità. Per lui pesa di più la sconfitta con il Derby County rispetto alla mancata promozione come vicepreside: “ci ho pensato due settimane a quel posto, mentre sono 18 anni che aspetto che l’Arsenal vinca il campionato!”. Un soggetto irrecuperabile. Il film descrive meravigliosamente tutti i tic e le manie del fissato, incapace di integrarsi nella vita sociale e di mantenere dei rapporti stabili, vivendo in un tormento costante, stagione dopo stagione (perché la sua forma mentis non ragiona certo per anni). 
La relazione tra Paul e la collega Sarah (Ruth Gemmell), insegnante di storia, diventa ancora più complicata quando l’Arsenal arriva davvero a giocarsi il campionato nella stagione 1988/89, durante uno dei campionati più avvincenti di sempre. Breve riassunto: dopo aver guidato la classifica per mesi, l’Arsenal ha perso la vetta ed è a -3 dal Liverpool. L’unico modo per conquistare il titolo di campioni d’Inghilterra è vincere l’ultima partita proprio contro i Reds, nel loro stadio, con almeno 2 gol di scarto. Una situazione disperata, con il Daily Mirror che titola “You Haven’t Got A Prayer, Arsenal”.
La relazione sull’orlo di una crisi di nervi tra Paul e Sarah si risolverà anche grazie alla catartica partita finale passata alla storia. Al bisbetico e immaturo Paul, con tutti i suoi difetti, non si può voler male: è solo un adulto che sogna ancora come un bambino.

 

5. Il mio amico Eric, di Ken Loach (2009)

Concludiamo con un’altra sfumatura del racconto del tifo calcistico. “La tua soddisfazione più grande?” chiede Eric Bishop a Eric Cantona. E la risposta non può certo essere banale. Qui si arriva addirittura alle allucinazioni. Eric – non il calciatore, l’altro – è un semplice postino con problemi personali e un’unica grande passione: il Manchester United. Un bel giorno torna a casa e… gli appare la visione di Eric Cantona in carne e ossa! Non una visione eterea, ascetica, ma quasi più reale del reale, che può vedere solo lui. L’ex capitano e leader del Manchester United infatti diventa subito un vero e proprio mentore, che dà saggi consigli ad Eric e lo sprona a riappropriarsi della sua vita.

 

 

“Il sognatore”
La scelta di coinvolgere il vero Eric Cantona per interpretare se stesso è la mossa vincente di Ken Loach, regista famoso per i film di denuncia a sostegno delle classi sociali più deboli, ma capace di raccontare con ironia l’insolito rapporto tra un povero di periferia e il suo idolo di sempre.
È anche l’occasione di riscoprire, per chi lo conoscesse solo in modo superficiale, la figura di Eric Cantona e l’impatto che ha avuto sul calcio inglese e sul calcio in generale tra gli anni ’80 e ’90. Una figura controversa e carismatica che nel corso della sua carriera, e anche dopo, non ha mai smesso di stupirci. L’ultima occasione è stata la sua partecipazione nel video di Once di Liam Gallagher: le icone delle due anime di Manchester (City e United) depongono le armi di un’eterna rivalità e uniscono le forze per celebrare la loro unica religione possibile, il britpop.

Laureato in Diritto Applicato, scappa dalla legge per fare il master "Fare Tv" e si ritrova a lavorare in redazioni tv per Endemol Shine Italy. Ha speso la maggior parte del suo tempo tra cinema e musica, il resto l'ha sperperato.